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Alice in Wonderland

Di Tim Burton si può dire tutto ma non che il suo stile non si riconosca. Può piacere o non piacere, può far storcere la bocca o strappare una risata, ma l’irriverenza, la tristezza, l’ironia dei suoi personaggi sono le armi con cui, in ogni suo film, sorprende il pubblico.

Alice in Wonderland si presenta nei cinema con l’innovazione – se così si può dire – della visione in 3D. La realtà è che il film non ne avrebbe bisogno.

La cura della scenografia digitale, a partire dai colori del cielo e fino ad arrivare alla gradazione degli occhi del Cappellaio Matto, è qualcosa di strabiliante. È il classico film girato su schermo verde, in cui gli attori – alcuni in costume, altri in tuta – recitano con interlocutori immaginari. Avete presente il Gollum de Il Signore degli Anelli? O la Neytiri di Avatar?

Si tratta di personaggi digitalizzati, ricostruiti al computer grazie ad appositi sensori che, inseriti nelle tute indossate dagli attori, ne rilevano i movimenti. Nel film recitano in questo modo Crispin Glover (ovvero Ilosovic Stayne, il fante di cuori) e Matt Lucas (nella doppia parte di Pancopinco e Pincopanco).

Buona l’interpretazione di Johnny Depp, il Cappellaio Matto, che offre l’ennesima prova della sua versatilità artistica, passando da momenti di ilarità estrema ad altri di profonda cupezza. È come se il Cappellaio fosse eternamente combattuto tra il passato, il cui drammatico ricordo non fa che gettarlo nello sconforto, e il presente, che è così estraneo e assurdo da spingerlo a dire e fare cose altrettanto o ancor più assurde, quasi fosse una reazione di rifiuto della realtà in cui si trova.

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