Il Signore del Canto, di Andrea Franco
Immaginare una società fondata sul canto, ove la magia stessa nasce e vive attraverso la voce dei musicanti, e riuscire a rendere credibile questo sistema, non è impresa semplice, ma Andrea Franco sembra riuscirci appieno. La storia, semplice e cristallina, è una storia d’amore che non anela a rappresentare l’ennesimo tentativo di salvare il mondo da parte del bene in lotta contro il male. Non c’è nulla di tutto questo nel breve romanzo pubblicato da DelosBooks, e ne siamo lieti, perché ciò che Franco ci racconta è qualcosa di lieve, che deve essere lieve, ma anche di profondamente sentito. Non si può non arrivare all’ultima pagina con una sensazione agrodolce che ci fa assaporare la chiusura pensando di aver letto qualcosa di buono, di cui rimane un ricordo piacevole.
La vicenda narra di come Jamis, giovane di’erendis (musicante, appunto) cerchi di salvare la sua amata èlhear, scelta per essere la futura hel’erendis (Signora del Canto, indiscussa autorità del mondo di al’ajiss) da un destino che altrimenti li separerà per sempre. La hel’erendis in carica, l’austera Halaedris, si oppone con tutte le sue forze alla sfrontatezza del giovane, nel tentativo di preservare l’equilibrio di un sistema che da secoli tiene fuori gli uomini dalle alte cariche di governo, al fine di mantenere la pace nel mondo. Equilibrio che Jamis incrinerà fino al punto di rottura. Ma l’amore per la sua bella è tale da spingerlo a prendere una decisione che finirà per sorprendere la stessa Halaedris.
Il romanzo, che conta poco più di cento pagine, è un viaggio che il lettore fa volentieri assieme a Jamis, col quale empatizza immediatamente. D’altronde, nella storia della letteratura, gli amori difficili sono da sempre tra i topoi di maggior successo, basti pensare a grandi classici quali I promessi sposi di Alessandro Manzoni o a Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Naturalmente qui siamo in ambito fantasy, ma il concetto di topoi abbraccia qualunque genere letterario, senza eccezione.
È una lettura che ci sentiamo di consigliare quindi, senza naturalmente avere grosse pretese, non tanto per la qualità – che c’è ed è indubbia – quanto per i contenuti che, a causa della brevità dell’opera, non arrivano a incidere quanto invece avrebbero potuto in uno spazio di pagine più ampio.
Morte in aprile, di José Luis Correa
Lei si addormentò, o finse di addormentarsi, molto prima di me, non per niente io mi ero alzato dopo mezzogiorno. Mi dedicai a sentirla respirare accanto a me, ad ascoltare i suoi gemiti, a sentire il suo profumo, a vegliarle il sonno, ad accoglierla nell’incavo delle mie braccia quando si girò e si accoccolò lì come se avesse intenzione di restarci a vivere per sempre. E mi dedicai a restituirle ognuno dei suoi baci, veri o sognati, e a ricevere il calore del suo corpo e a desiderarla di nuovo e sempre con dolcezza.
Torna Ricardo Blanco, detective di Las Palmas che sembra venuto fuori da un altro tempo, duro e cinico a volte, ma anche goffo e sentimentale, creatura sull’orlo dell’estinzione, che non si rassegna alle ingiustizie e lotta strenuamente contro di esse, anche gratis se occorre, pur di mettere a nudo le nascoste verità in cui viene continuamente invischiato.
Questo secondo capitolo delle sue avventure è forse più profondo rispetto al primo, la sua personalità si delinea in maniera più precisa, dipingendone la forza e la fragilità con tratti da maestro. Correa, a suo modo, è un maestro. Abile nel tessere una ragnatela in cui invischiare il suo amato protatonista, abile nel mettere in piedi situazioni anche al limite del credibile, che il lettore finisce per accettare per buone perché, si dice, è il mondo di Ricardo Blanco a essere al limite del credibile.
Le passioni del detective vengono stravolte in questo romanzo da un serial killer spietato e lucido, pur nella sua pazzia. Le persone che ama verranno trascinate in un vortice che rischia di portarsi via quello stesso mondo di Blanco, così variopinto, vivido, indimenticabile.
Alice in Wonderland
Di Tim Burton si può dire tutto ma non che il suo stile non si riconosca. Può piacere o non piacere, può far storcere la bocca o strappare una risata, ma l’irriverenza, la tristezza, l’ironia dei suoi personaggi sono le armi con cui, in ogni suo film, sorprende il pubblico.
Alice in Wonderland si presenta nei cinema con l’innovazione – se così si può dire – della visione in 3D. La realtà è che il film non ne avrebbe bisogno.
La cura della scenografia digitale, a partire dai colori del cielo e fino ad arrivare alla gradazione degli occhi del Cappellaio Matto, è qualcosa di strabiliante. È il classico film girato su schermo verde, in cui gli attori – alcuni in costume, altri in tuta – recitano con interlocutori immaginari. Avete presente il Gollum de Il Signore degli Anelli? O la Neytiri di Avatar?
Si tratta di personaggi digitalizzati, ricostruiti al computer grazie ad appositi sensori che, inseriti nelle tute indossate dagli attori, ne rilevano i movimenti. Nel film recitano in questo modo Crispin Glover (ovvero Ilosovic Stayne, il fante di cuori) e Matt Lucas (nella doppia parte di Pancopinco e Pincopanco).
Buona l’interpretazione di Johnny Depp, il Cappellaio Matto, che offre l’ennesima prova della sua versatilità artistica, passando da momenti di ilarità estrema ad altri di profonda cupezza. È come se il Cappellaio fosse eternamente combattuto tra il passato, il cui drammatico ricordo non fa che gettarlo nello sconforto, e il presente, che è così estraneo e assurdo da spingerlo a dire e fare cose altrettanto o ancor più assurde, quasi fosse una reazione di rifiuto della realtà in cui si trova.
La sottile linea scura, di Joe R. Lansdale
Lansdale ci ha abituati, nel tempo, al suo stile impressionista. Attraverso le parole è in grado di rievocare suoni, odori, immagini di un America in stato confusionale, nell’epoca dei conflitti razziali, come nel bellissimo “In fondo alla palude”, tanto per citare un altro dei suoi romanzi più riusciti. La Sottile Linea Scura si colloca in questo filone in maniera violenta e, quando giriamo l’ultima pagina, lo facciamo con la consapevolezza di avere imparato qualcosa di quel tempo, di quei luoghi, della gente che vi viveva. A raccontare questa storia è un anziano Stanley Mitchell, che ripercorre le vicende della sua giovinezza, tornando all’estate del 1958, nella cittadina di Dewmont in Texas, estate in cui il ragazzino Stanley si ritrovò di botto sparato fuori dall’adolescenza verso le realtà, a volte crude, a volte drammatiche, dell’età adulta.
Six Shots: sei colpi nel weird
Ciò che identifica un’opera nella definizione di weird è una inusuale commistione di generi letterari capace di dar vita a uno scritto bizzarro, derivante ad esempio elementi anacronistici, allucinazioni mischiate a realtà, situazioni grottesche e improbabili, personaggi al di fuori di qualsiasi standard, e altro ancora. Non vi sono moltissime opere di questo tipo; un autore da citare per inquadrare l’argomento è China Miéville.
In Italia, ancor meno che all’esterno, gli autori non amano molto cimentarsi nel weird. Eppure, oggi qualcosa di nuovo c’è. Edizioni XII ha da poco sfornato un libro a metà tra il western e il fantastico, dalle tinte noir, a tratti pulp. L’autore, Alfredo Mogavero, piuttosto noto sul web per i suoi successi in svariati concorsi letterari, esordisce nel panorama dell’editoria italiana con Six Shots, un’opera a metà tra un’antologia di racconti e un romanzo a episodi.
Six Shots: sei colpi. Sei racconti che vanno a segno uno dopo l’altro, lasciando nel lettore la sensazione di aver incontrato qualcosa di particolare. Non si parla di capolavoro, ma troviamo in quest’opera elementi raramente presenti in libri di autori nostrani emergenti.
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