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Jessica Jones: una di noi

jessica-jones-1Netflix ha rilasciato da poco la seconda stagione di Jessica Jones e io sono qui a parlarvene, perché, certe volte, bisogna farlo. Della Marvel abbiamo potuto vedere supereroi in quantità. Da Iron Man in poi, di tasselli ne sono stati messi tanti, quasi tutti a incastro in modo da definire un mondo unico capace di racchiudere tante storie diverse, rese leggenda dalle gesta eroiche di ognuno di quei personaggi originati dai fumetti. Al cinema come in Tv, la Marvel ha messo in campo ambientazioni fantastiche ed eventi catastrofici in quantità.

E se tra gli Avengers del cinema e i Defenders della Tv, la differenza è netta – eroi goliardici impegnati a salvare il mondo i primi, anti–eroi devastati dai propri demoni i secondi – ancora più netto è il distacco tra i vari Daredevil, Iron Fist e Luke Cage da una parte e Jessica Jones dall’altra.

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Jessica ha un passato tragico come Matt Murdock, la testardaggine di Danny Rand e la forza di Luke Cage ma, a differenza loro, non ha nessuna voglia di aiutare gli altri. O meglio, se lo deve fare okay, ma tanto vale farsi pagare per questo, e così ecco la Alias Investigazioni, la sua agenzia da detective.

La routine della nostra Jessica è la solita: sveglia tardi, o quando capita, un cicchetto del buongiorno, poi alla scrivania a controllare la posta, un’occhiata ai suoi casi, si esce per indagare e fare domande in giro e – se possibile – spaccare qualche muso, sosta al bar dove affogare la propria frustrazione, scattare qualche foto appostata nell’ombra di un vicolo o di un balcone, una scopata se capita,  e con chi capita, e rincasare tardi, per poi terminare la giornata scolandosi una bottiglia di whisky e collassare ubriaca sul letto.

Questa è la nostra eroina. O anti–eroina.

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Eppure… Krysten Ritter è di una bravura eccezionale. Se provate a seguirla su Instagram, la vedrete sempre sorridente, tutta in tiro in occasione dei grandi eventi, con una nuova frangetta e il suo cagnolino spelacchiato al seguito, insomma, la classica star di Hollywood da red carpet. E forse anche qualcosa in più, visto che ha da poco pubblicato Bonfire, il suo primo romanzo thriller.

Beh, Jessica Jones è invece una persona del tutto diversa – come deve essere, chiariamo – e Krysten Ritter riesce a darle uno spessore dannatamente reale. Ogni sguardo, ogni smorfia, ogni bicchiere di whisky, ogni cinica battuta, tutto delinea un personaggio che davvero non ha nulla a che vedere con chi la interpreta. Risulta credibile in ogni suo singolo aspetto.Screen_Shot_2017_12_09_at_5.18.58_PM

E, anche quando la sceneggiatura non ci regala grandi emozioni e rischia, a volte, di annoiare – nella seconda stagione più che nella prima – Jessica ci calamita nel suo mondo interiore, nella lotta intestina che la divora, nel suo decidere cosa essere, da che parte stare, se aiutare il prossimo o se stessa, se accettarsi per ciò che è o rinnegarlo.

Certo, la vita di Jessica non è facile. Se nella prima stagione il villain di turno – Killgrave, interpretato da un grande David Tennant – mina la sua stabilità mentale, la sua autostima e le persone che ama, nella seconda è il suo passato a minacciare Jessica e tutto ciò che lei rappresenta, per sé e per gli altri, al punto da allontanare quelle stesse persone per le quali aveva lottato così tanto. È così che rischia di perdere le uniche due persone che contano davvero per lei: la sua amica/sorellastra Trish (Rachel Taylor) che per lei farebbe di tutto – forse anche troppo – e il suo braccio destro Malcolm (Eka Darville), spesso impegnato più a restaurarle l’appartamento che ad assisterla nelle indagini. Completa il cast Carrie–Anne Moss nei panni di Jeryn Hoghart, avvocato di grido invischiata un po’ con tutti i Defenders.

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Suggestiva anche la sigla di apertura, dove una musica lenta accompagna immagini disegnate in movimento, e si fa man mano incalzante, fino a quando si delinea il profilo di Jessica, e il suo occhio aperto che guarda, che può avere più di un significato: come lei osservi il mondo che la circonda, come il suo sguardo indagatore analizzi i crimini nella sua città, o come lei sia in grado di vedere cose di cui nessun altro si accorge.

Jessica Jones  è, di fatto, un noir, e la parte supereroistica risulta marginale, perché così deve essere. Quando Jessica sradica uno sportello o sfonda una porta, lo fa perché è arrabbiata, perché il suo non sapere chi è davvero la condiziona al punto da portarla a usare i suoi poteri spesso a sproposito. E il suo trattare male gli altri, anche chi non se lo merita, denota ancor più queste sue debolezze.

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Jessica è una di noi, non è un supereroe, ma una qualunque con dei poteri. La sua vera forza, a ben vedere, è la sua volontà nel persistere, nell’andare avanti nonostante tutto e tutti, nel non arrendersi mai, neppure quando è lei stessa il suo nemico più grande. Ma è proprio tutto questo, a mio avviso, a fare di lei il miglior personaggio di tutto il pacchetto Marvel.

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Lo spazio che ci unisce… o che ci divide?

spacebetweenusThe space between us è un gran bel film diretto da Peter Chelsom, che vede la partecipazione di Gary Oldman, Carla Gugino, Asa Butterfield e Britt Robertson. Com’è subito evidente, la trasposizione italiana del titolo, in qualche modo, è l’esatto opposto di quello originale. Quello che doveva essere lo “spazio tra noi” – e che, quindi, a rigor di logica, divide – è stato tradotto con “unisce”, cosa davvero curiosa e che approfondirò più avanti.

La storia in breve: Gardner Elliot è nato su Marte, da una giovane astronauta che lo ha partorito dopo essere partita per fondare la prima colonia marziana. Un errore, visto che nascere su Marte, con una gravità così diversa, significa non poter vivere sulla Terra a causa di una diversa conformazione ossea e di un cuore non adatto alla vita terrestre.

Ma, una volta cresciuto, Gardner riesce comunque a far ritorno sulla Terra, perché è lì che vuole essere, perché ha una foto di sua madre con un uomo che potrebbe essere suo padre e intende trovarlo. Così riesce a fuggire dalla custodia della Nasa e contatta l’unica persona che conosce sulla Terra, la coetanea Tulsa, con cui chattava da Marte. Piccolo particolare: lei non sa da dove lui venga, non conosce la sua storia e, ascoltando i suoi bizzarri racconti su Marte, la crede una balla. Ma poi tra i due scoccherà l’amore, tutti i nodi verranno al pettine e il viaggio di Gardner si trasformerà in una riscoperta di sé, della felicità, della bellezza delle cose semplici.

Di fronte a queste incredibili nuove esperienze, lo spazio – inteso come immensità – che divide Gardner da Tulsa diventa così improvvisamente piccolo, perché ciò che provano l’uno per l’altra li raccoglie, li lega insieme e li rende indivisibili. Forse per questo la traduzione non è poi così sbagliata, forse per questo lo spazio diviene protagonista, incarnando allo stesso tempo il villain di quest’avventura e il trait-d’union della vicenda. Lo spazio passa quindi dall’accezione di immensità a qualcosa di più astratto, e diviene sentimento, perché niente è in grado di azzerare le distanze come l’amore.

 

Interstellar: la nuova odissea

interstellar2Prima che i puristi e i conservatori si sentano in dovere di contestare il titolo – e il contenuto – di questa recensione, lasciatemi dire che qualunque cosa vogliate dire, fondamentalmente – pur rispettandola – non m’interessa. 2001: Odissea nello Spazio ha segnato un’epoca ma è giusto che oggi, a 46 anni di distanza, vi succeda una nuova odissea. E Interstellar si pone nell’ottica di successore ideale, tanto per i contenuti, che per le musiche, la fotografia, l’intensità dei sentimenti. Con delle differenze, certo, a volte esigue, altre notevoli. Ma così deve essere.

Christopher Nolan, che firma la regia del film, non ci fa certo rimpiangere Stanley Kubrick, anzi. Dopo lavori come Memento e Inception, Interstellar non fa che confermare il talento di questo regista.

Quello a cui assistiamo in Interstellar in tre ore di pellicola non è soltanto l’odissea di un gruppo di astronauti in esplorazione nello spazio profondo alla ricerca di un nuovo mondo per la razza umana, ma anche un viaggio interiore – duplice, di Cooper e di Murph – e la storia di un padre e una figlia, del legame profondo che li unisce e che sembra elevata a metafora dell’intera umanità, perché è nell’amore reciproco che è possibile trovare la salvezza.

Questo in ultimo il messaggio del film.interstellar3

E poco importa, francamente, se i benpensanti troveranno cavilli cui attaccarsi per criticare un capolavoro come questo. Vi è un lato mistico in Interstellar, così come fu per 2001: Odissea nello spazio, vi è un punto dove la scienza si ferma e lascia il passo a qualcosa che è al di là della nostra conoscenza. Così veniamo inghiottiti dall’ignoto e da una scoperta che ci avvolge e ci scalda il cuore. Perché noi siamo lì assieme a Cooper, in quella assurda quinta dimensione; e siamo lì con Murph, prima bambina e poi adulta; siamo lì anche noi perchéinterstellar-buco-nero-633x415, come loro, vorremmo salvare la Terra e l’umanità intera dalla devastazione che la sconvolge. Perché tale devastazione è laggiù, di fronte a noi, e la vediamo ogni giorno più reale, veramente. Non è un caso che vengano girati ciclicamente film sulla fine del mondo, la percezione dell’uomo suggerisce che è proprio là che ci stiamo spingendo, epoca dopo epoca. L’evoluzione, con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse – di ogni tipo di risorsa – ci sta portando alla rovina.

E in Interstellar, questo viene dato per scontato. Non si ferma a spiegare perché si sia arrivati a questo punto. Non serve. Il futuro che ci mostra è distopico – viene detto che non si crede più nel viaggio sulla Luna e francamente dubito che questo possa accadere nel nostro futuro, ma potrei anche sbagliare – ma è un futuro fin troppo vicino a noi.

Davvero emozioni intense per un film che rimane impresso fin nel profondo.

annemattUn plauso, infine, al cast: Un Matthew McCounaghey che, dopo la sensazionale prova nella serie True Detective, conferma la propria crescita professionale; intensa anche Jessica Chastain – che ricordiamo in un altro grande film: Zero Dark Thirty – nel ruolo della Murph adulta, e la piccola Mackenzie Foy (già vista in The Conjuring), che incarna tutta la tenerezza capace di far sciogliere il cuore a un padre. Ma tutto il cast – stellare – se la cava bene: Anne Hathaway, Michael Caine, John Lithgow, Topher Grace, Casey Affleck, Wes Bentley, David Gyasi, Matt Damon, Ellen Burstyn. 

Alle musiche un sempre grande Hans Zimmer, capace di trovare i ritmi giusti per trascinare lo spettatore nella spirale temporale in cui si muovono Cooper – nello spazio – e Murph – sulla Terra.

Per chiudere, soltanto due parole: Grazie Christopher.

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Femmine che se la tirano (e ti fanno ammazzare)

evagreenIn due parole: Eva Green.

Sì, reduce dalla visione di Sin City – Una donna per cui uccidere, non potevo esimermi dal pubblicare questo post. D’altronde il suo è un personaggio creato ad hoc per restare scolpito nella mente del pubblico – maschile, diciamolo – e, in fondo, da quel corpo statuario che galleggia in acqua come librandosi nella notte, tra schizzi di sangue latteo e quegli occhi verdi e brillanti come gemme incastonate nel marmo, non puoi che aspettarti questo.

Cosa rimane del film, se non e-s-a-t-t-a-m-e-n-t-e l’immagine di Eva Green?

Ma facciamo mente locale, perché il film – straordinario, forse non quanto il primo, però siam lì – propone una quantità tale di storie, intrecci e visioni, da non potersi ridurre solo a una femmina che se la tira, o, come dice Marv a Dwight, una donna per cui uccidere. O ancora, come dico io, per cui farsi ammazzare, visto che il corso della vicenda, a un certo punto – magari anche in maniera prevedibile – prende proprio questa piega.eva3

Ho già menzionato Marv, ed è unico, naturalmente, unico nel suo genere. A vestirne i panni è un Mickey Rourke sempre perfettamente calato nel suo personaggio, che se la diverte un casino a fare a pezzi la gente, tra un’amnesia e un goccio di liquame alcolico. A ben vedere, è il personaggio jolly di questo secondo film, l’unico a interagire praticamente con tutti gli altri protagonisti. E a metterci del suo, questo è certo.

C’è Dwight, stavolta “abitato” dalla faccia di Josh Brolin anziché da quella più pulita ma anche più ironica di Clive Owen (a me è mancato, non so a voi), ed è lui quello che si fa fottere da Ava (Eva Green), anche se a ben vedere non è il solo; in suo soccorso, come la prima volta, arriva Gail (Rosario Dawson) ma stavolta può contare pure sull’onnipresente Marv.

C’è pure Nancy, Jessica Alba – quasi me la stavo scordando – che finisce in netto secondo piano a differenza della prima pellicola, dove risaltava decisamente di più. Per lei un cambio di look –  e devo ancora decidere se ci abbia guadagnato o no – e una vendetta per la morte di Hartigan, un Bruce Willis fantasma che – eh sì, l’ho pensato! – pare venuto direttamente dal set de Il Sesto Senso.eva4

C’è pure Joseph Gordon-Levitt, nei panni di Johnny, un giocatore d’azzardo un po’ troppo testardo, un po’ troppo fortunato e un po’ troppo stupido per reggere il confronto con gli altri. Si fa rompere le dita per poi farle riaggiustare a un redivivo Cristopher Lloyd, che sempre un piacere veder recitare. Verso la fine della sua travagliata storia incontra persino Lady Gaga (giusto un cameo) nei panni di Bertha, una giovane cameriera che gli offre dei soldi perché riprenda in mano la sua vita.

Il film è costellato di innumerevoli altri personaggi che non staremo qui a elencare. Posso dire però che mi è dispiaciuto veder sostituita la Miho di Devon Aoki con quella di Jamie Chung, ma se sono sopravvissuto al nuovo Dwight si può sopravvivere anche a questo.evagreen2

Gli effetti visivi sono splendidi, forse superiori anche al primo film, volutamente ancora più fumettistici, studiati con maggior cura, almeno questa è la sensazione che ho avuto; mentre le vicende, nonché i villain, rispetto al primo Sin City mi sono apparsi meno originali; mi è mancata una figura di spicco come quella di Kevin (Elijah Wood), che pur non durando a lungo ti resta impressa come una lama nello stomaco. Non è da escludere, però, che la causa di questa differenza sia la mancata novità che invece era ben presente allora.

Sin City resta in ogni caso una perla, di qualsiasi versione si tratti, e da qualunque punto lo si guardi. Davanti allo schermo ci si diverte, è un fumetto che prende vita e ti avvolge nelle sue spire nere e corrotte. Come Dwight, anche noi (maschi malati) veniamo ammaliati dall’essere che è Ava e non vorremmo più staccarcene.

La domanda, alla fine, è: vi sarà un terzo episodio? Personalmente, lo spero.

LUCY (ovvero come Scarlett Johansson si trasforma in un Dio nel tempo di una fottuta partita di calcio)

lucyLo attendevo molto questo film, devo riconoscerlo. Vuoi perché Scarlett Johansson è quello che è, vuoi perché il veterano Morgan Freeman è quello che è, vuoi perché il regista Luc Besson è quello che è, vuoi perché il cervello umano ha talmente pochi neuroni attivi che uno si aspetta che, tutto sommato, Scarlett, Morgan e Luc possano bastare a garantire la qualità di un film, o almeno la sua godereccia visione.

Ecco, diciamo che questo dei pochi neuroni attivi è un bel problema, è di fatto il tema portante della storia; il professor Freeman spiega a una folta platea, durante un convegno, che il cervello umano utilizza solo il 10% delle sue facoltà ed emerge il grande interrogativo: quali effetti potrebbero verificarsi nel caso in cui tale percentuale aumenti?

Ce lo spiega Luc Besson e lo fa attraverso il corpo di Scarlett Johansson, che quella sera stessa invade lo spazio vitale del professore comparendo simultaneamente al telefono, in tv e sul portatile del disgraziato Un Morgan Freeman che appare un po’ chiuso a riccio, in una parte che è francamente un po’ una palla.

Cosa che naturalmente non si può dire di Scarlett, che sembra qui prendere un po’ le mosse da Vedova Nera, trasferita dalla sede degli Avengers direttamente a Taiwan, un posto pieno di coreani incazzati e sanguinari che, pur di riprendersi tre buste contenenti una nuova droga sintetica, non esitano a dichiarare guerra alla polizia internazionale, arrivando fino agli Champs Elysées. La droga, spieghiamo, non è quella cosa capace di aprire la mente umana fino a farle raggiungere il 100% delle sue facoltà, non nella realtà almeno. Lo fa solo questa qui. Ma, chiaramente, i bruti non hanno fatto i conti con Vedova Nera – aehm, pardon! Lucy – qui riplasmata nelle sembianze di una studentessa capitata nel posto sbagliato con l’uomo sbagliato.Lucy (1)

Il film è divertente? Sì, lo è. Inseguimenti, scene comiche, molta azione, la giusta dose di fantasia mista a qualche frammento di scienza. Effetti speciali discreti, soprattutto quando lei rischia di polverizzarsi sull’aereo perché le sue cellule vanno in astinenza e rischiano di disintegrarla.

C’è pure un simpatico poliziotto francese (Amr Waked) che fa espressioni pittoresche ogni volta lei si lascia andare a una prodezza soprannaturale. Fa un po’ pena, in realtà, ma ha la faccia giusta per la parte che interpreta.

E quindi, direte voi, ti è piaciuto o no? Dal titolo non sembra.

Ecco, il punto è questo. Mi  sarei aspettato di più. Pensavo fosse un film “da non perdere” ma la realtà è che è solo un film “da vedere”, sapendo che comunque non c’è nulla di nuovo rispetto al già visto universale.

Riddick: meno male che c’è Starbuck!

riddick-Se non l’aveste capito, Riddick non è che mi sia piaciuto molto. Parliamoci chiaro: Vin Diesel se la cava egregiamente con quella sua non-espressione, ma mi aspettavo un film coinvolgente, incapace di annoiare. Invece, per i primi venti minuti la poltrona diventa così comoda che quasi quasi ci si potrebbe addormentare. E quella voce narrante del nostro antieroe che commenta quanto gli è accaduto per coprire le scene silenziose – che forse sarebbero state più interessanti con una musica incalzante – è una vera tortura scorticaossa.

Poi arriva l’alieno iena-cane, fighissimo, che mi ha ricordato una certa creatura del mio libro di prossima uscita per Runa Editrice (non dico il titolo però!) e che ho preso subito in simpatia.

E poi, mostri qua e mostri là, e arrivano i mercenari. Idioti e spocchiosi quelli della prima astronave, cazzuti e integerrimi i secondi.Screen-shot Tra questi – apriti cielo – ecco spuntare Katee Sackhoff, la Starbuck (Scorpion nella versione italiana) di Battlestar Galactica, abbigliata e acconciata nello stesso modo, un autentico tuffo nel mare della tranquillità, come incontrare una vecchia amica che ti fa sentire a casa. Anche se poi tranquilla non è, visto che spacca ripetutamente il naso al disgraziato di turno, nella fattispecie un odioso Jordi Mollà.

La nota lieta del film è che fa da legante ai primi due episodi, finora rimasti scollegati fra loro (Pitch Black e The Chronicles of Riddick). Il finale, finalmente movimentato, lo diventa anche troppo e una o due scene oltre i limiti del tollerabile purtroppo ci sono (ad esempio quando uccide il mercenario che gli sta, per giusti motivi, sulle palle).

Insomma, le creature aliene spaccano abbastanza – gli altri – ma non lui, che ha imparato a conoscerle nei giorni precedenti e sa come combatterle. Anche qui, forse fin troppo bene. Riddick rischia di passare da antieroe cazzuto  a macchietta ammazzatutto.

Sicuramente un film che va visto, ma non è certo ai livelli di Pitch Black, a mio giudizio, fino a ora l’episodio migliore della trilogia.

Lettura estiva: Codex Gilgamesh

codex gilgameshConfesso di non avere una grande esperienza di letture di genere steampunk, sebbene mi intrighino sempre molto queste ambientazioni vittoriane colme di macchine e armi a vapore gigantesche e frastornanti.

Non avevo mai letto prima nulla dell’autore di questo Codex Gilgamesh, ma ho scoperto che Uberto Ceretoli aveva già pubblicato diverse cose, tra le quali due romanzi con la casa editrice Asengard.

Due premesse, quindi, che mi hanno spinto a osare e acquistare il libro.

Voglio iniziare col dire che mi è piaciuto. Ceretoli riesce a ricreare un’ambientazione particolareggiata ed evocativa al tempo stesso, pur utilizzando una quantità di termini desueti che, se da una parte rallenta e a volte ingolfa la lettura, dall’altra non può che calare il lettore ancor più in quel mondo alternativo che è riuscito a comporre, pezzo a pezzo. E l’impalcatura è salda, la documentazione che sta alla base delle nozioni fornite a chi legge è ben organizzata e a fine libro troviamo un’appendice con le fonti storiche e le forzature narrative messe in atto (cosa che un Dan Brown qualunque si guarderebbe bene dal fare, ingannandoci con le sue fantasiose -pur interessanti – congetture, spacciate per fatti storici assodati).

I personaggi calati sulla scena sono molti e, tra i nomi più importanti, ricordiamo quello di Leonardo Da Vinci (Dan Brown forse ne sarebbe lieto!), Cleopatra e Gilgamesh. Ma come non menzionare il folle Jumpin’ Jack e la gelida e letale Eudora, nonché il barone Victor Von Frankenstein, genio malvagio a cui si devono le resurrezioni di simili imperdibili personaggi.

La storia mi ha ricordato a tratti certe ambientazioni dei film di Indiana Jones, storie di archeologia e paranormale fuse insieme che sfociano nel mistico e nell’ultratecnologico. Il livello linguistico, come anticipato, è alto, forse eccessivo a volte, ma calza con l’epoca vittoriana e gli usi dei suoi abitanti. Spesso si ha l’impressione che alcune situazioni vengano reiterate un po’ troppo, qualche stonatura qua e là si nota, anche nei dialoghi e nelle battute fuori luogo, soprattutto dove l’azione è concitata, ma lasciatemi dire che sono aghi nel pagliaio.

La nota forse più dolente è, invece, non aver esplorato a fondo proprio i personaggi storici più importanti. Personalmente avrei tolto un po’ di scena a Jack in favore di Leonardo e della Regina Egizia. Da lettore, mi sarebbe piaciuto conoscerli meglio.

Nel complesso un buon libro che mi sento caldamente di consigliare.

Dylan Dog su Knife

Per me una cosa così “forte” non era prevedibile fino a qualche tempo fa. È davvero con orgoglio che vi presento – ma l’avrete già visto, anche se farò finta di no – l’ultimo numero del magazine di Nero Cafè, Knife 6, con all’interno uno Speciale dedicato a Dylan Dog.

La mia collezione, là nell’armadio, sta facendo tremare il mobile. Tutti i miei albi fremono per potersi unire a questo nuovo prodotto, cartaceo, dove spicca in copertina un Dylan disegnato dal bravissimo Marco Bianchini.

Sia chiaro, all’interno non c’è un fumetto di Dylan Dog – anche se un fumetto c’è ed è un bellissimo noir denominato Polvere, a firma Napolitano e Guardascione – ma lo speciale che vi troverete a leggere sarà, a modesto avviso di chi scrive, più che sufficiente a soddisfare la vostra insana voglia di sapere. Curiosità, sfaccettature dell’universo dylaniato vi aspettano tra le pagine del nuovo Knife. Marco Bianchini e Barbara Baraldi ci parleranno delle loro esperienze con l’indagatore dell’incubo.

Ma in questo numero non c’è solo Dylan. Troverete interessanti articoli e le interviste a Massimo Lugli e quel Mauro Saracino ora fondatore della Dunwich Edizioni. Per non parlare di un mio personale incontro-scontro con Vergy, un folle ex-militare nato dal genio creativo di Claudio Vergnani, che si è gentilmente prestato a comporre quello che definirei come un puzzle naturale.

 Insomma, scaricatelo e leggetelo, gratis. Oppure compratevi il cartaceo che, credetemi, ne vale sicuramente la pena.

 

Total Recall – Un remake come si deve (ma potreste non essere d’accordo).

Total-Recall-LO-itaNonostante in rete non se ne parli bene – ma quando mai si sente parlar bene di un remake? – devo ammettere che vedere questo film è stata una gradevole sorpresa.

Sarà che una Kate Beckinsale così cattiva non si era mai vista; che il mondo rappresentato nel suo caotico ammassarsi in verticale a metà fra Blade Runner e Il Quinto Elemento mi ha riportato alla mente ambientazioni di cui avevo nostalgia; che il triangolo d’amore e odio Farrell-Beckinsale-Biel funziona (a mio parere) e tiene in piedi il film, molto più della trama vera e propria (ammettiamolo); che, infine, le scene d’inseguimento sono girate con maestria.

Sarà tutto quanto detto sopra, ma è me il film è proprio piaciuto.

Non rimpiango Schwarzenegger, né tanto meno Sharon Stone, né l’ambientazione marziana. Certo, quelli erano altri tempi e sicuramente il film di allora è più fedele al romanzo cui si ispira, ma questo Total Recall ha adrenalina da vendere. Colin Farrell risulta credibile – almeno per me – e la sua espressione da “oh cazzo, sono meglio di James Bond” mi pare azzeccata.

Peccato per il cameo troppo veloce di Bill Nighy, da cui mi aspettavo di più (non certo come performance ma come tempo sulla pellicola magari sì) e per il cattivo mancato – cos’era? un governatore? un cancelliere? un sindaco? boh… – ben rimpiazzato dalla spietata Kate, che riesce persino a oscurare Jessica Biel – che comunque si difende – in quanto a presenza scenica.

Certo, le pecche ci sono. A tratti si sente traballare la sceneggiatura, anche se molte battute sono azzeccate. Ma gli effetti e le mancanza di scene morte consente di non badare molto ai dettagli e godersi la “traversata” con una certa disinvoltura.

Due scene su tutte da ricordare, l’inseguimento iniziale a piedi nella città e quello in “ascensore”. Oddio, anche Kate che – seduta sul petto di Colin – lo prende a pugni come se stesse prendendo un caffè…

E ora beccatevi il trailer.