I Racconti del sangue e dell’acqua: Recensione su MArte Magazine
Un nuovo modo di raccontare l’orrore e di farlo in Italia dove la tradizione horror ha subito una forte battuta d’arresto. Racconti di sangue e dolore, di acqua che non è vita ma è perdita e che diventano un doppio ciclo.
Daniele Picciuti, presenta in occasione delle finalissime MArteLive il suo nuovo romanzo, I racconti del sangue e dell’acqua, Edizioni Bel- Ami e quello che ci ritroviamo tra le mani è un piccolo gioiello di genere dove il sangue, linfa dell’uomo e di ogni creatura, e l’acqua, fonte primaria dell’esistenza di ogni essere vivente, sono il sottile filo conduttore di tredici storie sospese tra realtà e incubo, tra paure e debolezze, tra ignoto e surreale.
Forse più vicino alle antiche storie di terrore di matrice lovecraftiana (ma ci sono elementi che ricordano molto anche Stevenson, Le Fanu e Poe), che non alle moderne vicende del genere che proliferano in libreria, Picciuti ci lascia una raccolta che va dalla paura alla debolezza umana tramutate in tare della mente, a il male dell’anima, tutte ambientate sul suolo italiano, a rivendicare una cittadinanza letteraria troppo spesso sottovalutata.
Ci sono cose che gli uomini non possono e non vogliono vedere, ci sono elementi surreali che rendono più vivido il ricordo: il primo ciclo di storie, quello del sangue, è introdotto da una citazione di Stephen King (Terre desolate), il secondo segmento è presentato da una “ripresa” di H.P. Lovecraft (L’Oceano della notte), mentre ogni racconto ha un sottotitolo indicante la sua diretta connessione al sangue o all’acqua. Ed è così che storie e personaggi incalzano il lettore, uno dietro l’altro, in un impeto che include sesso e infamia, vita e dolore, morte e redenzione, come a dimostrare che non è affatto vero che il genere racconto è morto e sepolto (piuttosto, visto il tema, diremmo risorto dalla tomba come uno zombie).
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Rot & Ruin, di Jonathan Maberry
Romanzo finalista al Bram Stoker Award e vincitore di altri prestigiosi premi come il Dead Letter Award, il Cybilis Award e il Melinda Award, più che un libro sugli zombie, Rot & Ruin può essere considerato un vero e proprio spaccato sociale, che strizza l’occhio a quel mondo post-apocalittico tipico di film come Mad Max e Resident Evil.
Ma le differenze, a livello di soggetto, sono notevoli.
Tanto per cominciare, nella storia di Maberry non ci sono eroi votati all’azione o al “coattismo” spudorato. C’è un ragazzino, Benny Imura, che all’inizio è quanto di più fastidioso ci si possa ritrovare davanti, un piccolo arrogante capace solo di giudicare gli altri, ma incapace di farlo con obiettività. Tom, fratello di Benny e rinomato Cacciatore di zombie, ai suoi occhi non è altro che un vigliacco, che ha lasciato morire la madre senza muovere un dito per salvarla.
I miti di Benny sono altri, quel Charlie occhio-di-vetro ad esempio, o il suo socio Motor city Hammer, così spavaldi e divertenti, le loro gesta sono raccontate perfino sulle Zombie Card. Peccato che, Benny lo scoprirà a sue spese, si tratti di persone poco raccomandabili.
L’avventura di questo ragazzino è una sorta di viaggio iniziatico che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Questo tratto del romanzo ricorda molto opere statuarie come It di Stephen King, anche se le “dimensioni” qui sono molto più ridotte.
Da sempre chiusa nella piccola cittadina di Mountainside, la gente non è più abituata a pensare con la propria testa. Nel loro piccolo, i cittadini si sentono sicuri. Non sanno quale orrore si nasconde là fuori, nel territorio di Rot & Ruin. E non si tratta solo dei morti che vagano senza sosta, affamati.
Si tratta del rispetto per la vita, della dignità umana, della compassione.
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Intervista su Strepitesti

Scrittore, articolista, recensore, organizzatore di concorsi letterari… la tua biografia ci propone il ritratto di un personaggio eclettico. Tu come ti presenteresti ai nostri lettori?
Le lacrime del drago, di Dean R. Koontz
Il Terzo Occhio è andato a spulciare nella sua biblioteca impolverata, alla ricerca di un vecchio libro da recensire. Molti i titoli esposti tra gli scaffali, ma nessuno ha attirato la sua attenzione. Fino a quando la pupilla non si è dilatata, mettendo a fuoco questo titolo: Le lacrime del drago, di Dean R. Koontz.
Il romanzo risale agli anni Novanta ma, lasciatemelo dire, è scritto dannatamente bene. La storia “acchiappa” nel vero senso della parola, la follia dilagante e il pathos visionario di Koontz strappano il lettore dalla sedia e lo teletrasportano sulle strade devastate dalla criminalità californiana. E poi, ancora più in profondità, nella mente malata di un serial killer dotato di poteri paranormali.
Un enorme abitatore delle strade, un buon metro e novanta, ripugnante e vestito di stracci, stava davanti a lui, a non più di un passo. La sua faccia era sfigurata da cicatrici e piaghe purulente. Gli occhi erano stretti, poco più che due fessure, incrostati agli angoli da una biancastra cistosità gommosa. L’alito che usciva tra i denti marci del barbone, tra le labbra putrescenti, era così fetido che Harry ebbe un conato di vomito.
“Tic tac, tic tac” ripeté il vagabondo.